Ricorso giudiziario e riduzione del canone di locazione a causa Covid-19: è legittimo per tutti?

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Breve commento giuridico-applicativo all’ordinanza del Tribunale di Roma n. 29683/2020 e sulle sue future applicazioni .

A cura di Avv. Francesco Alaimo e Dott. Simone Zaccaria
Finalmente è arrivata la prima pronuncia del Tribunale di Roma circa la complicata questione relativa alla riduzione dei canoni di locazione per il periodo di chiusura totale, il c.d. lockdown.
Il Giudice, interpellato da un locatario di un immobile adibito ad uso commerciale, con l’ordinanza nr. 29683 del 2020 ha disposto la riduzione del 40% per i canoni di locazione di marzo ed aprile 2020 ed ha altresì diminuito il canone per le mensilità fino al marzo 2021 del 20%.
È però importante capire quali siano i presupposti giuridici che il Giudice ha preso quale parametro per l’emanazione di tale ordinanza e, soprattutto, se tale pronuncia sia una linea guida da poter replicare in ogni contratto di locazione ad uso commerciale.
Alla base del ragionamento effettuato vi è un principio cardine del nostro ordinamento, la buona fede contrattuale che, sebbene non debba mai mancare tra le parti che stipulano un contratto, assume in questo caso una eccezione più amplia e più pregnante nel contratto di locazione.
Il concetto di buona fede contrattuale ha radici antichissime e può essere sintetizzato nella correttezza e reciproca lealtà che le parti non possono omettere durante la stipula di un negozio giuridico.
Oltre alla buona fede, all’interno di un rapporto negoziale vi sono anche una serie di presupposti di fatto che sostanziano, o potremmo dire “che danno senso”, alla conclusione di quell’accordo; nel caso delle locazioni commerciali il presupposto prevalente (o meglio, unico) è l’utilizzo dell’immobile per l’esercizio dell’attività economica.
Certamente, la crisi economica dipesa dalla pandemia Covid-19 e soprattutto la chiusura forzata delle attività commerciali devono qualificarsi quali elementi che incidono sicuramente sul presupposto primario del contratto di locazione, ovvero sull’utilizzo dell’immobile per l’uso al quale era destinato.
Quindi, se è vero che pur in assenza di clausole esplicite di rinegoziazione i contratti aventi ad oggetto negozi giuridici a lungo termine – come sono di regola le locazioni commerciali – il principio generale è che questi debbano continuare ad essere rispettati, è anche vero che “qualora si ravvisi una sopravvenienza nel sostrato fattuale e giuridico che costituisce il presupposto alla convenzione negoziale, quale la pandemia Covid-19, la parte che riceverebbe uno svantaggio dal protrarsi della esecuzione del contratto alle stesse condizioni pattuite inizialmente, deve poter avere la facoltà di rinegoziarne il contenuto, in base al dovere generale di buona fede oggettiva”.
La buona fede qui descritta, amplia la portata del concetto generale che tutti conosciamo: viene difatti intesa con una funzione che potremmo definire di tipo integrativo-cogente volta ad integrare, appunto, il contratto qualora ci si trovi dinanzi a fatti sopravvenuti o, comunque, non pronosticabili per il quale non erano previste apposite clausole.
Questo vuol dire che nel caso di una imprevedibile pandemia, il locatore che non provvede a rinegoziare il contratto di locazione potrebbe compiere un abuso della propria posizione contrattale, in violazione proprio di quel principio di buona fede c.d. integrativa che, dovendo permanere per tutta la durata del contratto, supplirebbe alla mancanza di una esplicita clausola in tal senso.
Questa chiave di lettura ha ribaltato quello che la prassi aveva indicato come strada da seguire nel pieno del periodo pandemico: infatti, al fine salvaguardare i conduttori, la strada più percorribile era quella di risolvere il contratto per evidenti squilibri tra le parti ai sensi dell’art. 1467 del codice civile. Tutto ciò, però, nel tentativo di tutelare il conduttore dallo squilibrio contrattuale che si andava formando, lo danneggiava sotto altri punti di vista, quali quelli prettamente riconducibili all’attività economica; si pensi alla perdita dell’avviamento o alla assoggettabilità ad un procedimento esecutivo promosso dal locatore per recuperare quanto non ricevuto prima della risoluzione contrattuale.
Tale soluzione sembra accontentare tutte le parti: da un lato, il conduttore ha un minor esborso economico in attesa della auspicata ripresa a pieno regime della attività mantenendo la continuità aziendale, dall’altro il locatore manterrà il suo diritto sul del canone, seppur temporaneamente ridotto, senza necessità di risoluzione contrattuale ed inutili spese per giudizi futuri.
Fermo restando quanto detto sopra, che rappresenta un principio generale nell’interpretazione dei contratti, il Giudice per applicare la riduzione del canone di locazione ha tenuto conto anche di altri fattori:
  • ha accertato che lo sforzo del legislatore fatto con l’art. 65 del D.L.17.3.2020, n.18, convertito in Legge n.27/2020, il quale prevede un credito di imposta del 60% sui canoni di locazione pagati nel mese di marzo 2020 non è, nel caso di specie, sufficiente a supplire le difficoltà economiche riscontrate dal conduttore con la chiusura forzata dell’attività;
  • ha valutato la tipologia si attività che veniva svolta all’interno dei locali e, conseguentemente, sia l’impatto economico della chiusura forzata sia l’impatto delle misure di contenimento dell’emergenza al momento della riapertura (nel caso di specie, si trattava di una attività di ristorazione, tra le più danneggiate);
  • ha valutato l’entità del canone di locazione che, essendo di non lieve entità, non avrebbe potuto essere garantito durante la chiusura dell’esercizio commerciale.
In conclusione, il principio generale della buona fede in senso integrativo cogente, frutto dell’attività interpretativa del Giudice di Roma, potrà senz’altro essere applicato a tutti i contratti di locazione ad uso commerciale andando quasi ad “imporre” un comportamento in buona fede del locatore ma, affinché si arrivi alla riduzione del canone è necessario che non vi siano altri elementi in grado di supplire, anche in parte, alla necessità di rinegoziare il contratto.
Tale rinegoziazione è pienamente condivisibile ed in linea con la buona fede e solidarietà sancite dall’art. 2 della Costituzione giacché, considerando l’altalenante andamento della pandemia e l’incertezza economica alla quale sono soggetti tutti gli operatori economici (non soltanto le categorie più colpite come la ristorazione, l’alberghiera ecc…) chiunque abbia una attività commerciale che ha subito gravi perdite ha il diritto di chiedere una rinegoziazione delle pattuizioni contrattuali fino ad un normale riassestamento del flusso di cassa.
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